Intervista di Roberta Scalise
La torinese Marisa Paschero propone un viaggio appassionante alla scoperta della Grafologia, dei suoi intimi significati e delle sue metodologie, indagate lungo le pagine dense e coinvolgenti del suo prezioso manuale, “Iniziazione alla Grafologia”, edito da Edizioni Mediterranee.
La scrittura «siamo noi». La scrittura segue i solchi del nostro vivere, rivela gli umori del momento in potenza e in atto e, nel suo moto rassicurante, schiude gli scenari di un passato latente, che trova così il suo prolungamento tangibile nella solidità di una penna e nel candido rifugio della carta.
Per comprenderne il linguaggio, però, è necessario conoscere i segni, le forme e le metodologie peculiari mediante cui si esprime, al fine di cogliere al meglio i messaggi che la nostra scrittura veicola di noi stessi. Ed è proprio per soddisfare queste esigenze che la grafologa torinese Marisa Paschero ha redatto “Iniziazione alla Grafologia”, un manuale cristallino e approfondito circa l’affascinante disciplina dell’interpretazione dell’«armonia» del gesto scrittorio, edito recentemente da Edizioni Mediterranee.
A essere proposto è, infatti, un viaggio alla scoperta dei numerosi segni, ritmi, movimenti, tratti, ambienti grafici e generi che tracciano i contorni della scrittura, qui indagati attraverso delucidazioni, schemi, riassunti e disamine esaustive che ne scandagliano l’integralità e i molteplici livelli di senso, senza mai tralasciarne o abbozzarne alcun aspetto. Cui l’autrice affianca, inoltre, anche esempi concreti di grafie, comuni e più “note” – da Rossellini a Freud, da Madre Teresa di Calcutta alla Callas, fino a Verdi, Beethoven, Lewis Carrol e molti altri –, e riflessioni di matrice intimistica e psichica, dal momento che, come afferma Jung, «nessuno può uscire dal proprio io. Noi agiamo come il nostro passato psicologico, cioè la nostra organizzazione cerebrale, ci impone. Per questo motivo, siamo vincolati a esprimere noi stessi esattamente nello stesso modo in cui lo facciamo nella nostra scrittura».
Marisa, da dove è scaturita la Sua passione per la Grafologia? Quali sono stati i primi passi che l’hanno introdotta a questa affascinante disciplina? E quali i suoi “maestri” o numi tutelari?
Qualunque segno mi affascina, qualunque traccia, anche minima, su qualunque supporto si trovi, soprattutto la carta.
Ho imparato a scrivere da sola, osservando incuriosita i quaderni dei miei fratelli, e mettendomi a copiare quelle misteriose piccole tracce che, concatenate fra loro, componevano parole, evocavano suoni e figure per poi trasformarsi in meravigliosi racconti di fiabe.
Sappiamo che tutti i bambini, nessuno escluso, nei primi anni di vita pensano e imparano per immagini e non hanno bisogno di logica: quello che lavora, finché non comincia la scuola con il suo apprendimento mnemonico e razionale, è l’emisfero destro del cervello.
Quindi quello immaginativo, emozionale e creativo, quello continuamente folgorato da sorprendenti intuizioni, da visioni piene di stupore che, ancora prima di diventare ricordi, sono già favole.
Ecco, io credo di avere conservato sempre lo “stupore” della traccia: intatto, ancora oggi. E il fascino dei diversi alfabeti, la storia remota del simbolo che ogni singola lettera contiene, la fluidità del movimento che dà vita ad ogni parola scorrendo sul rigo. Tutto questo mi stupisce ancora.
C’è chi vive in un mondo di suoni, di ritmo, di musica: la scrittura è stata sempre la mia musica.
Da qui a scoprire, una volta diventata adulta, la realtà di una straordinaria disciplina che si chiamava Grafologia, che mi avrebbe insegnato a comprendere il linguaggio della scrittura, non solo a livello intuitivo, ma anche simbolico e psicologico, il passo è stato breve.
Ho saputo che esisteva una tradizione grafologica di tutto rispetto, che c’erano scuole e metodi interpretativi diversi: li ho “cercati” tutti e tutti puntualmente, per una serie di fortunate coincidenze – che sappiamo bene non essere mai tali! – , si sono presentati sul mio cammino.
Quasi per caso, mi sono ritrovata alla mia prima lezione di Grafologia, e non l’ho più lasciata. Ho cominciato con i metodi italiani di Girolamo Moretti e di Marco Marchesan, successivamente ho incontrato il metodo francese, che prediligo, ho approfondito il sistema tedesco affidandomi all’approccio empatico di Ludwig Klages e al rigore analitico di Walter Hegar. Il mio stile di lavoro attuale è una sintesi di tutte le strade che ho seguito.
Il Maestro in assoluto è, per me, Jules Crépieux-Jamin, il padre della Grafologia francese, un personaggio eclettico e geniale, mentre il mio nume tutelare è senz’altro Max Pulver, iniziatore della Grafologia simbolista, il primo ricercatore che ha collegato l’interpretazione della scrittura alla psicologia del profondo di matrice junghiana.
Quali sono state – se possono essere riferite – le maggiori “scoperte” che ha rinvenuto di sé mediante lo studio dell’arte grafologica?
Mi piace molto che Lei usi la parola “arte”! Molto spesso la Grafologia viene chiamata “scienza” e questo ha sempre generato non poche perplessità, oltre a parecchie polemiche.
Il grande maestro Crépieux-Jamin riassumeva in questa frase il significato profondo della nostra disciplina:
“Sempre in una analisi grafologica peseranno molto il talento e la grazia del grafologo, la decisiva capacità di intuire espressioni e abbracciare degli insiemi. Sembra dono innato in taluni e quasi impossibile da sviluppare in altri. Inoltre, poiché non ci sono due scritture identiche, né possono esistere, una scrittura concreta opporrà sempre alla scienza grafologica l’invisibile barriera che ogni individuo oppone a tutta la scienza. Dell’individuo non esiste né concetto, né scienza, recita la filosofia. La grafologia applicata sarà perciò sempre un’arte.”
Per quanto mi riguarda direttamente, direi che le scoperte non sono mai terminate. Ricordo con sollievo il momento in cui mi sono resa conto che la mia “brutta scrittura”, come quella di molte persone dal tracciato rapido e pressoché illeggibile, era senz’altro frutto di una pre-disposizione temperamentale, ma anche di una fortissima emotività che non riuscivo a controllare. Se col nostro temperamento di base dobbiamo in ogni modo venire a patti, possiamo però imparare a gestirne i risvolti, soprattutto se si rivelano disturbanti, volgendoli a nostro favore: ed ecco che la nostra fragilità può diventare la nostra ricchezza. È un’educazione, una disciplina, un apprendimento, un miglioramento di noi stessi: in questo consiste la grafoterapia, cui ho dedicato il mio primo libro. Ma questa è un’altra storia!
La scrittura cambia nel tempo, vive con noi, registra sia il nostro stato d’animo immediato che il nostro vissuto. Trattiene i ricordi, conserva il nostro bagaglio genetico, parla del nostro potenziale, anche di quello inespresso, o forse soprattutto di quello. Un’analisi grafologica profonda mette a nudo fragilità e talenti, racconta il non detto. Lei sa che ci sono parole che hanno una particolare risonanza emotiva? Tutti noi ne abbiamo, fanno parte della nostra storia, e la scrittura puntualmente le registra con una “vibrazione” grafica particolare. Quando mi capita di riconoscerle e di farle notare a chi mi ascolta, è sempre un momento emozionante, in cui davvero tutta la meraviglia della traccia, ancora una volta, si rinnova.
Perché è importante conoscere i significati della propria scrittura? Come la sua interpretazione può arricchire la nostra esistenza? E quale funzione ricopre nel nostro benessere psicofisico?
La nostra scrittura ci rappresenta: conoscere i “segni” che le danno forma equivale ad incontrare noi stessi nel nostro aspetto più diretto, sincero e profondo. Naturalmente stiamo parlando di tracciati spontanei, senza abbellimenti, ricercatezze o costruzioni. Se vogliamo veramente conoscerci attraverso la scrittura dobbiamo, infatti, lasciare da parte qualunque volontà di auto-
rappresentazione e affidarci unicamente all’immediatezza dell’espressione, senza preoccuparci delle eventuali “disarmonie” grafiche che noteremo – considerandole sempre, anzi, con una certa indulgenza.
La curiosità e il sorriso non devono mai abbandonarci mentre osserviamo noi stessi in questo specchio che ci riflette senza finzioni! Apparirà la totalità del nostro essere, e potremo risalire alla fonte di eventuali “incidenti di percorso”, integrandoli e trasformandoli in occasioni di evoluzione personale. Sarà come una sorta di auto-analisi che, se affrontata senza pregiudizi, ci offrirà una meravigliosa opportunità: quella di crescere – indipendentemente dalla nostra età anagrafica –, quella di vederci nel “qui e ora”, ma anche in prospettiva, per un reale miglioramento di noi stessi e della qualità della nostra vita.
Che cosa consiglierebbe a chi, invece, non ha ancora trovato la “propria” scrittura?
Semplicemente di “mettersi in ascolto”: la scrittura parla continuamente. Con le sue pause, i suoi stacchi, i suoi collegamenti, i suoi silenzi, i suoi “bianchi” e i suoi “neri”.
A proposito di bianco e di nero: avrà sicuramente notato fogli scritti molto fitti, dove il nero predomina come una massa compatta, e altri dove le parole sembrano “galleggiare” in un mare di bianco: chi pensa sia, dei due, il “sognatore”? Chi l’intuitivo? Chi quello più sensibile ai messaggi dell’inconscio? Sa che le parti non scritte, gli spazi lasciati bianchi, sono espressivi quanto le parti scritte?
A chi sta cercando se stesso attraverso la propria scrittura, consiglio un esercizio molto semplice, lo stesso che era stato consigliato a me in occasione della mia prima lezione di Grafologia: prendere un foglio bianco – mi raccomando: né righe né quadretti, né margini. Il foglio, infatti, rappresenta simbolicamente il nostro mondo, il nostro ambiente, lo spazio in cui ci muoviamo, e come tale dev’essere lasciato libero, non ci devono essere “guide” prestabilite! –, utilizzare lo strumento abituale, sedersi comodamente in un posto tranquillo e cominciare a scrivere. Scrivere un’intera pagina, con naturalezza, datarla e firmarla. E poi, semplicemente, osservare il foglio scritto come se fosse un quadro. Capovolgerlo, allontanarlo e avvicinarlo ancora, guardarlo in controluce, girarlo e accarezzarne il verso per “sentire” la pressione della mano. Bisognerà sforzarsi di ascoltare le sensazioni che questo approccio visivo ha generato senza giudicarle, lasciandole fluire. Ci potrà essere del compiacimento verso le proprie forme grafiche, oppure della perplessità, o anche un senso di fastidio: non è detto che quella “fotografia” di noi stessi ci piaccia! Forse, chissà, potremo pensare che non ci rappresenti, che non ci appartenga, che non ci somigli, o che l’inquadratura non sia stata quella giusta. Ma una cosa è certa: avremo aperto una porta, saremo entrati in rapporto con la parte più vera di noi stessi e non si tratterà, se vorremo, che di continuare il dialogo.
Avremo iniziato un viaggio, e sarà un viaggio emozionante!
A proposito del testo, quali sono state le fasi precipue del processo creativo? Quale è stata la scintilla della sua genesi? E qual è il messaggio principale che intende veicolare?
Devo dire che il punto di partenza è stato quanto di più classico: ho immaginato un testo che potesse offrire, soprattutto a chi si avvicina per la prima volta alla Grafologia, un orientamento di base e delle linee guida per costruire un ritratto.
Quindi la mia prima preoccupazione è stata quella di esprimere dei concetti – che di per sé possono risultare abbastanza complessi, perché tecnici – in maniera il più possibile lineare e divulgativa.
Nel medesimo tempo il mio perfezionismo imponeva un’impostazione didattica rigorosa, ma assolutamente corretta dal punto di vista metodologico.
E come se non bastasse volevo, per il lettore più esigente, adeguati riferimenti tecnici, storici, psicologici e culturali, per favorire precisione e coinvolgimento: il progetto cominciava a farsi piuttosto ambizioso per un piccolo libro!
Ovviamente sapevo che già esistevano tanti manuali di Grafologia, ma ciascuno legato a un suo preciso metodo, e a quello soltanto: dal momento che, come grafologa, ho il privilegio di una formazione trasversale, ho, dunque, pensato di dare tutto lo spazio possibile a voci diverse del mondo grafologico.
Ho utilizzato termini che appartengono a scuole e metodi differenti – francese, italiano, svizzero, tedesco –, ho cercato uno sguardo interdisciplinare più aperto e più adatto alla realtà di oggi e ho offerto, attraverso la mia esperienza, un parallelo e un confronto.
Mi occupo di Grafologia ormai da quasi trent’anni e mi rendo conto delle difficoltà che un allievo incontra nell’avvicinarsi a questa disciplina, qualora venga proposta con un approccio troppo rigido, troppo analitico, troppo ripetitivo, troppo scoraggiante. Per questo motivo, ho cercato di trasformare la Grafologia in uno strumento il più possibile personale e creativo.
Ho fatto appello non solo alla capacità mnemonica, ma anche a quella intuitiva, associativa ed empatica del lettore: ho cercato di condurlo, attraverso l’interpretazione della scrittura inteso come un sistema di simboli, direttamente al “cuore” del tracciato.
Come ho scritto nella conclusione, questo è un libro dedicato a chi ama la scrittura, ma ancora di più a chi, passo dopo passo, imparerà ad amarla.
E sono immensamente grata al mio editore che, ancora una volta, ha compreso e mi ha dato fiducia.
Quali sono, invece, gli aspetti in cui si articola il Suo lavoro? Può farci un esempio di una “richiesta tipica”?
Ho cominciato occupandomi prevalentemente di Grafologia dell’età evolutiva, e solo in seguito mi sono dedicata alla scrittura adulta con l’analisi della personalità. Quindi le “richieste tipiche” sono state, almeno inizialmente, di orientamento scolastico e di supporto per eventuali disturbi di scrittura, come la disgrafia. Successivamente, mi sono occupata di consulenza in ambito professionale e solo quando mi sono sentita sufficientemente preparata ho affrontato la Grafologia giudiziaria, tornando a scuola da un perito accreditato e veramente esperto, da cui ho imparato la tecnica operativa.
Come vede, la Grafologia spazia in ambiti diversi, e questa è la sua ricchezza: si continua a imparare facendo referti, aggiornandosi e verificando sul campo.
Un grafologo può dirsi completo quando sappia avvicinare la scrittura sia dal punto di vista tecnico che psicologico.
Quali sono, poi, gli intenti con cui le persone si avvicinano alla Grafologia? Ha notato delle motivazioni ricorrenti?
Escludendo le motivazioni legate all’analisi di documenti in contestazione, di cui il grafologo si limita a stabilire l’autografia, ossia l’identità o meno della mano scrivente, senza alcun tipo di ricerca psicologica, solitamente si cerca un esperto per conoscere meglio noi stessi o le persone che ci stanno accanto, siano figli, partner, amici, dipendenti, compagni di lavoro.
A volte è necessario seguire gli adolescenti con discrezione, in maniera non invasiva, soprattutto in momenti di particolare difficoltà, e lo studio della loro scrittura in evoluzione può rivelarsi utilissimo.
Lungo le pagine del testo, alcuni “modelli” di scrittura – come quello armonioso di Crépieux-Jamin, per esempio – godono della stima di “grafie di riferimento”, in quanto corrispettivi di un riuscito inserimento sociale e di un sano equilibrio interiore: si può, dunque, supporre che esistano scritture “migliori” di altre?
Assolutamente no! Non esiste una scrittura “migliore” di un’altra.
Crépieux-Jamin, da uomo del suo tempo, era molto legato alla tradizione: la scrittura che definiva “armoniosa” esprimeva un modello di misura e di perfezione formale che rispondeva a un solido ideale borghese ottocentesco. Il “grado di armonia” grafica, così come lui lo aveva concepito, non può che apparire ai nostri occhi alquanto datato, ma lo utilizziamo per imparare, per abituarci a osservare gli equilibri d’insieme delle masse grafiche, o le eventuali discordanze, cogliendo con immediatezza le caratteristiche di base di una grafia.
Certo, le scritture “armoniose” comunicano una sensazione di equilibrio, di ordine, di posatezza, di pace interiore, ma ci sono anche scritture fortemente “disarmoniche” di grandissima intensità, originalità e ricchezza vitale! Il giudizio non è mai qualitativo: ogni tracciato è unico, come unica è la persona con la propria storia. Aggiungo, inoltre, che sia le scritture dei temperamenti nervosi che dei tipi estremamente dinamici e iper-attivi, per non parlare degli ipersensibili, a causa dell’inquietudine di fondo risultano necessariamente “oscure” e presentano disuguaglianze diffuse che possono apparire come disarmonie.
Per quanto concerne i Suoi anni di pratica, invece: vi sono grafie/persone – sia note, sia “comuni” – che Le sono rimaste particolarmente impresse? E se sì, per quale motivo?
Le scritture di particolare impatto visivo catturano automaticamente l’attenzione del grafologo, soprattutto agli inizi, quando il fascino di alcuni “piccoli segni”, o di “gesti tipo” dall’aspetto appariscente prendono il sopravvento sulla globalità del grafismo, caratterizzandolo in maniera creativa e ingegnosa. Poi, con il passare del tempo e dopo tanti referti, quello che attrae è il tracciato più contenuto, più sobrio, più consueto, mai vistoso, dove i segni vivono di una presenza discreta e bisogna “andarli a cercare”, per scoprirne il linguaggio e la bellezza.
E Lei, ha una scrittura “preferita” ? In caso affermativo, perché?
Forse non dovrei dirlo, ma io adoro le “brutte scritture”! Sapesse quante volte mi sento dire da chi mi consegna il suo saggio grafico “Guardi che io scrivo malissimo! Ho sempre scritto male. I miei insegnanti non capivano e rifiutavano di correggere i miei temi”.
E chi me lo dice non sa che proprio le scritture all’apparenza più difficili sono quelle più ricche di segni, più affascinanti, più coinvolgenti, più parlanti agli occhi del grafologo!
La conoscenza della nostra scrittura e di quella altrui può, inoltre, aiutarci a vivere meglio le relazioni familiari, amicali o amorose?
Certo! Quante volte ci si chiede perché scegliamo sempre “quelle” amicizie? Perché ci innamoriamo proprio di “quella” persona? Perché è così difficile il dialogo con i nostri figli? Perché nella vita sentimentale spesso ripetiamo le stesse scelte e gli stessi errori? Rincorriamo una illusoria idea di completezza, o esiste la strada per una convivenza duratura, perfetta, o almeno serena?
Il “referto di coppia” mette in relazione scritture-personalità diverse allo scopo di scoprirne gli aspetti compatibili, le possibili sintonie, i punti di contatto e le conflittualità spesso meno evidenti e prevedibili. È proprio uno dei campi di ricerca più appassionanti della Grafologia!
Naturalmente, poi, ci sono diverse chiavi di lettura per comprendere i motivi dell’attrazione reciproca ed entrare nella delicata “alchimia” delle relazioni interpersonali. Ad esempio, io cerco prima di tutto di capire come interagiscono le quattro “funzioni psichiche” – Pensiero, Sentimento, Sensazione e Intuizione –, che Jung ha descritto in uno dei suoi testi più famosi, i “Tipi psicologici”. I segni grafici relativi sono facilmente riconoscibili e mi permettono di risalire con una certa immediatezza alla funzione privilegiata, che determina il tipo psicologico dominante. Quando i soggetti appartengono alla stessa dominante può succedere che, inizialmente, tra loro nasca un rapporto di grande “riconoscimento” e complicità, quasi una magica fusione, che si trasforma poi in una sorta di competizione frustrante nella vita di tutti i giorni, costellata di litigi e complicata dall’insofferenza reciproca, quando nei difetti altrui vengono riconosciuti – e detestati! – i propri. Quando la funzione principale è opposta – il caso classico può essere stato, soprattutto in passato, l’uomo-Pensiero e la donna-Sentimento –, è necessario che, dopo la forte attrazione iniziale, nella coppia si attui il riconoscimento dei propri ruoli e la divisione dei propri spazi, con un criterio forse un po’ scontato e prevedibile, ma ancora funzionale, se vissuto all’insegna della maturità e della volontà di adattamento reciproco.
Del dialogo fra le quattro funzioni è bene, comunque, non essere soltanto spettatori passivi: è possibile, riconoscendone le dinamiche, migliorarne l’interazione, avvicinandoci a una visione più serena di noi stessi e del nostro modo di affrontare e assimilare le esperienze che la vita ci offre,
e anche in questo la Grafologia può rivelarsi un’ottima alleata.
Qual è, infine, la percezione attuale della disciplina? Quali sono i massimi esponenti? E qual è l’accoglienza da parte della popolazione, nazionale e mondiale?
Oggi la Grafologia ha perduto l’aura “magica” che la circondava ai suoi inizi, ed è considerata a tutti gli effetti una disciplina autonoma, con un solido supporto psicologico. Esistono, infatti, ottime scuole, in Italia per lo più triennali, che preparano alla professione. Ma al di là di quel che si impara frequentando i corsi, è necessario un importante lavoro personale e molto, moltissimo esercizio.
Certo è che oggi, in questo mondo di “nativi digitali” per cui carta e penna rischiano di diventare un vago ricordo, spesso mi sento chiedere che senso abbia ancora occuparsi di interpretare la scrittura. La mia risposta è sempre la stessa: la scrittura è una ricchezza, è la conferma dell’unicità di ciascuno di noi, è la “proiezione” di noi stessi, delle nostre memorie e del nostro progetto di vita.
A livello generale è il segnale di una civiltà che, nascendo ed evolvendosi, ha potuto raccontare la sua Storia e lasciarne traccia.
È davvero, come dicevano gli antichi, “un dono degli dèi”. Un dono cui, sono certa, non vorremo rinunciare.
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